L’onnipotenza, l’immortalità dell’adolescenza che si scontrano in quel tratto di vita che ti riporta a rispettare un patto sociale per sopravvivere. Una linea ben disegnata, uno spartiacque preciso, visibile, dove ti tuffi senza capire il tuo, personalissimo, istinto di conservazione. (Sperando che ti vada bene)
La nascita è già una separazione. Forte, lacerante e traumatica. E da quel momento credo di aver combattuto e lottato per vivere, per sopportare la luce, il bruciore dell’aria e per aver lasciato quel cordone che mi faceva sentire meno sola. Una vita di regole e obblighi. Regole che si trasgrediscono e obblighi che si contestano. Già, è la vita, così dicono. Oggi sono una donna e non mi sono liberata di un bel niente, al contrario. Certo, gli obiettivi sono altri e le gioie diverse, ma la fatica rimane tale, identica a quella che da bambina mi faceva scappare, fuggire lontano. Riesco a rimanere con me stessa con una certa facilità. Spesso sono contemplativa, potrei fermarmi e fissare un punto dell’orizzonte senza annoiarmi per ore e ore. Ma amo l’essere umano, ne ho bisogno, ci credo ed è proprio questo l’obbligo maggiore a cui faccio riferimento. Mantenere le relazioni, quelle affettive, quelle importanti. Sembra brutto chiamarlo obbligo, ma la necessità di dare e ricevere, di farci uscire dal guscio, di abbracciare e dire ti voglio bene mi costringe ad usare un’energia che non sempre possiedo. Ho perfino la gran fortuna di essere corteggiata. Tutti i miei amici vorrebbero trascorrere giornate con me. Ne sono felice, appagata e lusingata. E spesso per accontentare tutti mi metto nei pasticci, magari ferendo la sensibilità dei più generosi.
E quindi bisogna mantenere tutta una serie di equilibri da funambolo, da trapezista, da contorsionista.
La mia migliore amica Ross ne è un esempio emblematico. Una ragazza meravigliosa, dall’intelligenza vivace, a tratti geniale. Tanto acuta, simpatica quanto oscura, folle e contorta.
L’intesa di anime è grande, troppo, una relazione che rasenta la morbosità. E ci infiliamo in mille avventure, sempre al limite, condite di viaggi dai sapori forti. Un amore che spesso mi porta ad un’accondiscendenza estrema spinta dal suo vittimismo costante. Ross, per attirare l’attenzione ha il “vizio” di suicidarsi. Una volta si taglia le vene, accuratamente in orizzontale, e io lì, sempre presente che rassicuro, che regalo sprazzi di ottimismo in un costante ascolto, un ascolto senza fine. Sì, mi obbligo a farlo, per affetto, per quella pietà che porta a danni irreparabili. Altre corse, altri giri dove il divertimento si estremizza fino alla provocazione totale. Provochiamo i passanti, ci travestiamo per protesta, non paghiamo il conto del locale non perché non abbiamo i soldi, ma per farci beffe del mondo intero. Ci sentiamo immortali, cattive ragazze e così pensiamo di migliorare il mondo. Sole contro tutti. Ma io non sono così, io la imito, la emulo, mi attrae, ammiro Il coraggio fasullo e infantile di urlare a tutti la nostra diversità, che diversità non è. E allora via, si corre, si fugge, si dorme per strada, si cercano le situazioni ambigue dove si rischia, tanto, troppo. Quante risate, quanto narcisismo, quanto potere sentiamo tra le mani. E dopo un po’ arriva il secondo suicidio. Non ricordo nemmeno con quale metodo. Un continuo ricatto morale che mi lega sempre di più, mi incatena a quegli occhi troppo brillanti. Luccicano di euforia. E io li seguo, incantata, stregata. Parliamo di filosofia, di religione, leggiamo la Bibbia e la interpretiamo noi, senza un credo, solo con la prepotenza dei diciassette anni.
Il tempo trascorre, inesorabile, la nostra amicizia continua. Lunghe telefonate notturne in cui i deliri si amplificano in un godimento unico, l’onnipotenza. Isolate nel nostro nido di spregiudicatezza. Nel frattempo cresco e mi accorgo di quanto tutto sia effimero, prendo coscienza di me, mi allontano pur mantenendo il rapporto in un’altalena di sì e no. Ed ecco il terzo suicidio. Ross parcheggia la macchina fuori dal SerT, si compra un grammo di eroina, se lo spara tutto in vena (così racconta), la mattina presto. Il giorno dopo leggo sul giornale locale: “Ragazza trovata in overdose in Via … Salvata in extremis”. Sto male, ma dentro mi scatta una rabbia che non conosco. Mi dà fastidio, ma è più forte di me. Corro all’ospedale. La trovo in reparto. Sta bene. Un respiro di sollievo. La mia reazione mi inquieta. Mi arrabbio. Le urlo: “La prossima volta vai in mezzo a un campo”. Poi le do un bacio e me ne vado. No, non sto bene, sto malissimo. Vado a trovarla ogni giorno. Rimango però ferma sulle mie posizioni. Parliamo tanto, in modo diverso. E riprendiamo la nostra vita. E’ cambiato qualcosa. Per distrarci facciamo un viaggio di un mese in un’oasi in Algeria con suo padre. Ci divertiamo, come sempre. Ridiamo, mangiamo zuppe che sanno di terra con gli arabi, scappiamo nelle notti di luna piena nel deserto con improbabili jeep dei locali. E’ fantastico. Quanto bene ci vogliamo, ma al ritorno riprendo la vita in mano. Frequento altre persone e quel filo piano piano si fa sempre più sottile. Dopo molti anni, Ross viene ricoverata. Sente strane voci che le dicono che il mondo è cattivo. Mi sono trasferita in un’altra città, la chiamo, la invito a casa. Si è iscritta all’ennesima facoltà e sta per dare un esame sulle religioni. Studiamo insieme. Non siamo sole, ci sono tante persone vicino a noi. Lei parla con me e gli altri, fantasmi della psiche. Li chiama per nome e me li presenta. Ci parlo anch’io. Faccio finta di credere che esistano davvero. Lei mi è grata. Oggi la sento ogni tanto, raramente. Ha scritto un libro su di noi. Lo vuole pubblicare. La sua voce non è più la stessa. E’ una voce lenta e urlata. Non ricorda tutto o almeno così pare. Oggi sono ancora più accondiscendente. Oggi non la conosco, ma le voglio bene. Voglio bene ad un’altra persona che rende il mio vuoto un burrone dove il fondo non si riesce a vedere.
Gibi