La prima volta che mi hanno detto di essere HIV positivo ero in ospedale per una polmonite, più di ventisette anni fa. Una mattina è entrata un’infermiera: passo deciso, testa alta, pancia in dentro e petto in fuori. E con la sua bella cartelletta tra le mani mi chiede: “Signor G. da quanto tempo è sieropositivo?”. Io? Ma sono qua per una polmonite.
Lei si gira di colpo e sparisce dalla stanza. Io lì sono entrato in un limbo del che cazzo vuol dire. Come se tutto fosse al rallentatore guardo il mio compagno di stanza, e quando i nostri sguardi si incrociano, lui mi fa una strana smorfia come a dire: “Lasciali perdere, non ci pensare”. In quel momento entrano in stanza un paio di dottori e un paio di infermieri. In pochi minuti mi avevano già spiegato tutto: medicine a vita, esami ogni tre mesi per controllare soprattutto difese immunitarie e carico virale, bla, bla, bla, bla.
Poi sono rimasto solo con i miei pensieri che hanno iniziato a girarmi nella testa all’impazzata. Non riuscivo ad averne uno, intero. Ma flash di pensieri: Le persone alle quali volevo bene. Vedevo ancora braccia che nei cespugli del parco cercavano frettolosamente la loro, mia, siringa. Fretta di tornare al lavoro. Va bene la prima che trovo, al massimo mi becco l’epatite. Così si diceva.
Mi sono sentito uno sfigato, uno dei pochi.
Lucasan