L’intervista a Paolo
Rumiz è stata fissata. In redazione c’è fermento e grande entusiasmo. Tutti
conosciamo Rumiz come giornalista e scrittore. La sua figura ci mette in
soggezione e, nello stesso tempo, ci regala stimoli nuovi. Discutiamo sui suoi
libri e sugli editoriali. Le suggestioni che le parole ci rimandano sono
innumerevoli. Vorremmo porgli domande su domande: sui viaggi, sul ricordo, la
memoria e la ricerca delle radici. Il tempo si accorcia e il giorno
dell’incontro arriva più in fretta di quello che ci immaginavamo.
Sei dicembre, ore
17.00, Sala Veruda.
Eccoci. Entra lo
scrittore con i suoi occhi chiari dove si legge una vita intera. I
ringraziamenti e le presentazioni aprono le porte alle nostre curiosità.
Redazione:
Perché scrivi?
P.R.:
Forse per lo stesso motivo per cui scrivete voi. Ai giornali mancano le
emozioni, le storie di persone, i casi che non fanno notizia ma in cui ci si
riconosce. Il mio primo articolo è stato un articolo di viaggio. Il viaggio è
fatto soprattutto di incontri e nel tempo si sviluppa una vera e propria
tecnica. In un terreno non proprio bisogna adattarsi, è necessario avere modi
lenti e si inizia da un linguaggio non verbale. Esiste un modo di porsi che si
deve costruire per favorire gli incontri. Quando attraversi uno spazio non tuo
lanci segnali di armistizio, non sei lì per invadere, per rubare, chiarisci che
non sei lì per ficcare il naso, sei lì in pace, per semplice curiosità, per sapere
cosa c’è. Noi lanciamo già dei messaggi (vestiti, gesti e sguardi) ma dobbiamo
avere un codice comportamentale tale da incuriosire l’indigeno. Il modo
migliore per conoscere è raccontarsi fino ad indurre l’altro a porti delle
domande. Lui si aprirà a te in misura tanto maggiore quanto più è effimero il
passaggio. Quasi fosse una folgorazione, non falsata dall’abitudine. E allora
sì, l’incontro produce dei cortocircuiti interessanti. Questa tecnica è fatta
per i viaggiatori leggeri, con mezzi lenti, soprattutto a piedi. Due anni fa
feci un piccolo viaggio in Istria. Parto da casa, a piedi, fino a Capo
Promontore. Dopo giorni acquisisco un’andatura lenta, uno sguardo verso
l’orizzonte, un modo di andare aperto, sincronizzo il passo e il respiro.
Chiunque poteva vedere che ero un uomo felice. Un contadino in fondo alla valle
mi guarda da lontano. Stava raccogliendo l’uva con il trattore. Spegne il
motore e si gode il mio arrivo. Lui per primo apre la bocca: “Ti ti va lontan”.
Lui sa già in che condizioni mi trovo. Io gli chiedo in croato come l’ha capito.
“Perché ti va pian”, risponde. Aveva capito il sorriso, l’andatura persuasa,
ampia, regolare, che rivelava il segno di un uomo che aveva staccato, che si
era preso il suo tempo. Aveva capito tutto. Il contadino aveva ribaltato il
vecchio motto “Chi va piano va sano e lontano”. Non un invito alla prudenza ma
il prendere tempo per vedere. Gran parte dei nostri disastri sono causati dalla
fretta, il nemico moderno.
Redazione:
Prima di partire cosa pensi e come vivi il momento che precede il viaggio?
P.R.:Quel
momento non precede una partenza. La voglia di andare in un luogo cresce
lentamente attraverso coincidenze. Sei assediato da una meta che ti dice che
devi andare là. Apri un libro, incontri un amico che ti stimola. Spesso sono i
luoghi che cercano te. Per esempio, l’Argentina dove è nato mio padre. Mi è
capitato persino con Annibale. Vado negli Appennini senza minimamente pensare
ad altro. Incontro una freccia che indica “Passo di Annibale”, vedo il “Ponte
di Annibale”. Forse devo capire perché. Bene, l’anno dopo, sono andato alla
ricerca di un uomo che mi stava cercando e ho percorso i suoi passi. Un
viaggiatore si lascia portare dall’emozione, da una suggestione. E ti prende
una febbre che ti stacca da altri uomini.
Redazione: Nell’infanzia avevi già questa predisposizione
all’avventura?
P.R.:
Ero il secchione della classe. Ero oggetto di presa in giro dagli altri. C’era
una sofferenza nei rapporti, poi ho restituito tutto quello che ho subìto. I
primi impulsi ad andare oltre la linea dell’orizzonte li ricordo verso i dodici
anni. Passavamo l’estate a Montenars, un paesino del Friuli. In quegli anni la
tivù trasmetteva una serie dedicata ad un esploratore americano. Quando vidi le
immagini di quell’uomo, interpretato da un meraviglioso Albertazzi, che andava
in cima ai monti del Kentucky ho provato un tuffo al cuore e piansi a lungo. Mi
sentivo chiuso nel carcere di una vita predeterminata. E provai il desiderio di
andare. Una delle cose che ti dà la vecchiaia è la comprensione che ciò che noi
siamo da piccoli è ciò che noi saremo da grandi. Da piccolo pensavo di
modificarmi invece si ritorna a quell’età, come se l’età adulta fosse una
parentesi infausta per tornare sé stessi. È una cosa che mi preme di dire al
mio nipotino: che si fidi di ciò che sente.
Redazione:
I luoghi chiamano. Sei stato chiamato anche dai luoghi della guerra. Cosa pensa
uno la notte prima di partire per la guerra?
P.R.:
Emozione, non paura. Ho concluso questo viaggio con una profonda
insoddisfazione. Non sono riuscito a calarmi in quello che quei ragazzi hanno
provato. Troppo difficile. Al di là della sopportazione dell’uomo moderno. La
natura ricopre questi luoghi. E’ l’imbroglio della natura. Non ho mai capito se
sono i generali che scelgono i posti più belli per fare i massacri o è la
natura che si diverte a cancellare le tracce dei massacri lì dove sono
avvenuti. Un mese fa sono stato in Polonia dove i triestini, dalmati, istriani
sono andati a morire per l’imperatore d’Austria. C’era una finestra di luce
sulla Polonia. Come se quel bel tempo mi aspettasse per mostrarmi i campi di
battaglia e anche lì la natura era incredibile. I cimiteri meravigliosi, fatti
apposta per seppellire tutti con pari dignità. Colline coperte di foglie rosse
vicino alle tombe di pietra. Arrivare lì la notte tardi e illuminare con la
pila i nomi che trovi sull’elenco telefonico di Trieste, in mezzo ai Carpazi,
ti emoziona. Sono stato travolto dalle sensazioni emotive e ho perso gli
appunti. Di fronte alla perdita apparentemente irrimediabile della pagina
scritta scopri in te risorse inaudite. Ho ricostruito. Mi sono reso conto che
mi riaffioravano cose diverse dalla carta. Era altro, era la memoria orale del
nonno che racconta al nipotino una fiaba. Memoria ruminata, modificata. Una trasfigurazione
sentimentale di ciò che hai vissuto allora. La trasmissione orale di ciò che si
crede di aver dimenticato. In realtà noi ricordiamo tutto e la scrittura, in
fondo, ci ha impigrito.
Redazione:
Una tecnica per capire ogni tipo di viaggio è l’estraniamento. Siamo in grado
noi di fare un viaggio nel quotidiano?
P.R.:
Quando mi ruppi un piede fui obbligato a muovermi con le stampelle. Andavo al
lavoro e la lentezza mi obbligava a guardare con più attenzione. Mi sono
accorto di un sacco di particolari. Si possono fare viaggi da fermi. Quello che
conta non sono i chilometri. Se le persone vengono a te va bene lo stesso e
bisogna avere l’attenzione giusta. Un contadino di Primiero rispose alla mia arroganza
di viaggiatore: “Mio nonno raccontava storie belle come le sue e non si è mai
mosso dal paese”. Ebbi un attimo di panico, presi tempo e gli chiesi che lavoro
facesse. Il ciabattino. Il negozio è sulla strada. Era chiaro che lui facendo
il suo lavoro incontrava persone e ne sapeva trarre le cose giuste. Aggiunsi
che si metteva nelle scarpe degli altri. Con il progredire dell’età l’uomo che
parte dalla sua casa poi si perde nel mondo per tornare e rileggere i suoi
luoghi. Tanto più vero per un giornalista. Non si deve andare sempre più
lontano. La saggezza si deve applicare nell’orto di casa propria, altrimenti le
esperienze sono inutili. Sento questa necessità. Ora voglio concentrarmi nel
mio luogo e lo voglio difendere.
Redazione:
Ma hai paura?
P.R.:
Noi abbiamo perso la percezione della paura. Viviamo in un mondo privo di
pericoli e siamo obbligati a crearci paure fittizie. La paura è utile, è ciò
che ci fa capire dove andare e dove no, anche di fronte agli elementi naturali.
Una sana paura ci rimette a posto nel mondo. Ogni viaggio comporta una piccola
dose di paura. Chissà cosa sarà, il mio fisico sarà all’altezza, sono domande che
ognuno si pone. E anche in questo caso, la paura è utile. Ogni viaggio
importante è un riassunto di una vita, se non si va a fare un giro per riempire
lo zaino di foto e souvenir. Metto da parte tutto ciò che ho avuto e vado a
verificare se quello che so è valido, mi metto alla prova e questo si teme.
L’importante è tornare con un sacco vuoto, alleggeriti di tutta la zavorra. Si
parte per alleggerirsi dell’inutile. Ci sono addirittura situazioni che non
sono narrabili, che non hai voglia di comunicare, che rimangono per te. Sono
incomunicabili.
Redazione:
Abbiamo capito la visione della paura del viaggio, ma come affronti
l’irrazionale?
P.R.:
E’ incredibile quanto vicino sia il luogo del fauno, la foresta buia. Provate a
perdervi nel boschetto di Cattinara, o nella Val Rosandra. Sentirete subito, di
notte, che quel mondo vi tirerà verso di sé. Parlo della paura della natura.
Ricordo che alcuni anni fa andai sugli Appennini con uno specialista di lupi
che era perfettamente capace di imitare i loro richiami. In una notte di stelle
magnifiche andammo su una montagna e lui lanciò questo grido rauco,
soprannaturale, quasi come quello di una anima persa dell’inferno o del
purgatorio. Ripeté il richiamo. I cani in valle tacquero tutti perché capirono
che avevano a che fare con un maschio alfa. I lupi cominciarono a rispondere e
a dire: “Resta nel tuo territorio, non entrare nel mio”. Tornammo verso il
villaggio, pieni nelle orecchie e nell’anima di tutti questi segnali. Ad un
certo punto questo amico mi disse: “Fermati un secondo”. Ci fermammo a circa
trecento metri dalle case. Noi eravamo lupi, noi facevamo parte di quel mondo
che un attimo prima ritenevo estraneo e lontanissimo da me. L’ incontro con il mammifero
è una cosa indelebile, dopo non sei più lo stesso. Quello ti cambia la vita. Chiudo
raccontandovi la storia di mio padre che è nato a Buenos Aires. Mio nonno
emigrò da bambino. Dalle carte dell’ufficio statistico dell’immigrazione
scoprii che aveva otto anni all’arrivo in Argentina. Era da solo, non
accompagnato. Pensa il livello di fame di allora e la capacità di questi bambini,
già uomini a otto anni. Questo bimbo cresce e fa fortuna e a trentacinque anni costruisce
il primo grattacielo di Buenos Aires. Diventa ricco, si sposa per procura con
una ragazza friulana, fa due figli, una femmina e mio padre che nasce nel 1917.
La banca dove aveva messo tutti i suoi soldi improvvisamente fallisce, perde
tutto e muore di crepacuore. A quel punto mia nonna si ritrova con due figli e
ritorna in Friuli, ma non ha i soldi sufficienti per tenere i due figli, così
manda mio padre da sua sorella che aveva sposato un magistrato militare
piemontese. Cresce con un’impronta militare e un’educazione di gran livello,
quasi ottocentesca. Mio padre era l’unico ufficiale che dava del lei ai soldati
e per questo veniva deriso dai suoi commilitoni. Nel sangue aveva il ballo.
Riusciva a far volteggiare anche una donna corpulenta come fosse leggerissima.
Tutte volevano ballare con lui perché le faceva sentire leggere. Ricordo che
quando noi andavamo all’albergo degli ufficiali di Tarvisio mio padre era
assediato dalle generalesse, così le chiamavamo, che volevano danzare solo con
lui. Io, malignamente, da adolescente, pensavo che una parte della carriera di
mio padre fosse dovuta a questa sua capacità di ballare il tango. Era un grande
tanghero, leggerissimo, ti comandava con lo sguardo, riusciva a far muovere
anche me con lo sguardo. Ricordo che quando è venuta l’epoca delle veline e dei
presidenti allegri, ho Immediatamente risolto il dubbio adolescenziale sulla
sua carriera, e mi è sfuggito un dolce sorriso.
Redazione:
Sei felice?
P.R.:Si,
ho un momento di grande felicità e tranquillità. L’unica cosa che mi manca è il
tempo.