Alle volte mi succede di pensare al tempo che passa, agli anni che corrono via veloci e talvolta mi sembra di arrancare per riuscire a stare al passo. Penso al tempo perso, sprecato, buttato via per cose e persone che a distanza di anni perdono tutta la loro importanza.
Credo che la vita non mi offrirà ancora tante occasioni e non vorrei perdermi più in cose inutili. Vorrei prendere al volo quel treno, quello che non ritornerà più.
A cinquant’anni, il tempo che ho davanti inevitabilmente si accorcia ed io ho ancora obiettivi da raggiungere. Ho voglia di fare cose nuove, di mettermi ancora alla prova, ho desideri da realizzare e tante speranze.
Tra un pensiero e l’altro, facendo due conti e un po’ di bilancio, ripercorro i momenti più significativi della mia vita, quelli belli fanno un po’ fatica a prendere forma eppure ne ho avuti, specialmente da piccola. I ricordi dolorosi invece arrivano velocemente senza preavviso e li rivivo con la stessa intensità. Sento persino quel dolore che attanaglia lo stomaco e sale su, fagocitando il cuore, costringendolo a sobbalzare per poter battere ancora e poi sale ancora fino alla gola e mi soffoca finché non lo lascio esplodere in un pianto a dirotto. Ferite che sono cicatrizzate solo superficialmente e basta un piccolo ricordo che si insinua nella mente e si aprono e sanguinano ancora. Ecco riaffiora il tempo andato e non perduto.
Rientro a casa, so per certo che c’è mio figlio perché non sta bene e l’ho lasciato a letto promettendogli che sarei ritornata presto. Entro, lo chiamo ma non ho risposta, lo richiamo a voce alta percorrendo il corridoio, i battiti del mio cuore accelerano e il sangue affluisce al cervello dandomi quasi un senso di vertigine, lo so già, senza vedere, lo sento, lo sento dentro.
Steso esamine sul letto, pallido come il lenzuolo, lo scuoto lo chiamo e lo richiamo, urlo il suo nome ma lui non c’è, non respira più. Madonnina mia, tu che sei madre come me, non portarmelo via! Non prego quasi mai, ma questa volta la preghiera è venuta su spontanea. Ho riposto i nostri destini nelle sue mani, quasi come unica speranza.
Un turbine di terrore misto a impotenza devasta il mio corpo e la testa mi scoppia, ma la mia mente deve restare lucida. Arriva il 118, velocissimo il medico inietta una fiala, gli infermieri nel frattempo lo stendono a terra e cercano disperatamente di rianimarlo. Una scarica elettrica al cuore uno, due, tre. Ne parte un’altra e poi il massaggio cardiaco e finalmente un soffio di vita lo rianima, il cuore riprende a battere e via con la respirazione e poi con l’ossigeno, ed io posso lasciarmi andare, stare finalmente male, arrendermi al dolore e mi lascio abbracciare e sostenere e piango. Dopo averlo stabilizzato, l’ambulanza se ne va e lo portano all’ospedale, io li seguo con la mia macchina, stanca, svuotata, avvilita per questa vita tutta in salita, ma felice, sì felice, la sua vita vale più del mio dolore.
Daniela Sessanta