Questa donna sente che è arrivato il momento del parto. Ha già un figlio e dunque conosce il suo corpo. Ma è in servizio al bar dove lavora e quindi si assenta per andare in bagno, partorisce e soffoca le prime parole della nuova vita. Nessuno deve sentire. Nessuno deve sapere. Era riuscita a tenere nascosta la gravidanza con bende e fasciature. Temeva di perdere il posto di lavoro.
Lo uccide. Lo mette in una borsa e pensa di tornare a lavorare. Una emorraggia la costringe al pronto soccorso.
Lo leggo nella pagina delle Cronache di un quotidiano. Lo rileggo. Perché nonostante l’asciuttezza del resoconto stento a credere che sia realtà e non piuttosto la caricatura estrema di una brutta storia di emarginazione partorita dalla penna malata di un uomo che non conosce le donne. Ma no. C’è una donna, straniera, che vive nel nostro paese, da sola, con un figlio di sette anni e già così non sa come fa a vivere. Un altro figlio significa perdere il lavoro, perdere tutto. Tutto quello per cui aveva lasciato il proprio paese cercando chissà cosa. Cosa? Una vita migliore per sé, per il proprio figlio? Cosa è una vita?
Come arriviamo a confondere la sopravvivenza con la vita vera? Nove mesi sono lunghi a passare. Quante volte quella donna avrà pensato a cosa fare? Quanti giorni ci stanno in nove mesi? Tantissimi. E quel figlio ora abbandonato? Un bambino che aveva una madre e ora vive dell’assenza di un’assassina. Ma quale colpa può stare nella disperazione? E quanta parte di colpa abbiamo noi, tutti noi?
Qualche anno fa lavorava come baby sitter dei miei figli una ragazza straniera con la quale pensavo di avere un rapporto sincero e confidenziale. Pensavo di essere una persona che chiaramente tutti identificano come corretta, gentile, compassionevole. Non potrò mai cancellare dalla mente l’immagine di lei, che si accascia al suolo del corridoio, strisciando lungo la parete, con quella sua salopette che ora comincio a scorgere un po’ gonfia sul ventre. È all’ottavo mese di gravidanza. Io ho già partorito due volte, la vedo ogni giorno e non mi sono accorta di nulla. Non capisco, non capisco niente. Lei piange, io piango. Non mi ha detto niente perché temeva di essere licenziata. Ma come? Ha un regolare contratto, la previdenza sociale si sarebbe occupata di lei. Non licenzierei mai e poi mai una donna che ha appena partorito. Pensavo si capisse subito, al primo sguardo. Forse le persone non mi guardano bene e non se ne accorgono.
Durante l’estate, appena saputo di essere incinta, di un uomo che forse non era mai stato nemmeno suo fidanzato e che comunque se ne era già andato senza alcuna intenzione di diventare padre, lei aveva deciso di abortire. Un fine settimana in più trascorso con noi le ha impedito di assentarsi per andare in ospedale. Mi sento responsabile di una vita che poteva anche non essere. Alexandra, voleva chiamarla. Mi sento madre di Alexandra. Mi gira la testa se penso che la sua vita è dipesa da un fine settimana di lavoro di sua madre. Non avessimo avuto bisogno del suo aiuto, avrebbe avuto il tempo di abortire. Il tempo di decidere che non era momento. Che era troppo giovane per diventare madre. Che era troppo ingiusto barattare l’amore di pochi giorni con una vita per sempre.
Perché è questo un figlio. Una vita per sempre. Qualcuno che entra nella tua vita. E che se decidi di non abortirlo o di non soffocarlo appena è nato, ti rimane attaccato alla carne tutta la vita. Che tu lo ami o lo odi, che tu sia felice o disperata. Non puoi mai fare finta che non ti riguardi. Quanto di più orribile o disumano tu pensi di fare, mai vincerà la visceralità di quello che ti è nato nel corpo e da esso è uscito.
Ma anche i figli abortiti e i figli soffocati ci rimangono attaccati, anzi ci rimangono dentro come un cancro che divora ogni pensiero e ogni azione. Non rieco a respirare al pensiero di quella donna. Stanotte è in carcere; e come si fa a vivere, a sopravvivere a se stesse dopo avere soffocato la vita che abbiamo dato? Come si fa ad abbracciare Alexandra e pensare che poteva anche non essere? Perché quel bimbo appena nato ha pianto? Fosse stato silenzioso lei lo avrebbe adagiato delicatamente nella borsa, lui avrebbe aspettato buono che la madre finisse il turno di lavoro e poi insieme sarebbero andati a casa. Che sorpresa per il fratello maggiore vedere quel cucciolo sbucare dalla borsa. Più che pregare vorrei urlare.
Elena